PREMESSA

In Italia la filariosi cardiopolmonare (FCP) del cane ha una lunga storia, la prima segnalazione della presenza di vermi nel cuore di cani avvenne ad opera di Francesco Birago nel 1626. Presenta una distribuzione cosmopolita, limitatamente alle zone a clima tropicale e temperato che garantiscono la presenza di un ambiente ecologico adatto allo sviluppo dell’ospite intermedio, la zanzara (Guerrero, 1988). Le condizioni climatiche rappresentano un fattore importante per lo sviluppo e la sopravvivenza dell’insetto. Temperature al di sotto dei 14° C e al di sopra dei 37° C sono sfavorevoli alla sua sopravvivenza. Il ruolo dei vettori sta evolvendo rispetto alle aree geografiche (Coluzzi e Trabucchi, 1968; Di Sacco et al., 1992) e la situazione sembra essere dinamica, con nuove specie come Aedes albopictus che viene riconosciuta come vettore (Cancrini et al., 1992). La temperatura influenza anche lo sviluppo delle larve di Dirofilaria immitis all’interno dell’ospite intermedio fino al raggiungimento dello stadio infestante. Con gli anni ‘80 esplodono gli studi epidemiologici relativi alla diffusione della parassitosi allargati ai fattori di rischio (Poglayen et al., 1988), e i tentativi di mappare la distribuzione a livello nazionale (Pampiglione et al., 1986; Genchi et al., 1988). In Italia sono stati riscontrati i livelli di prevalenza più elevati in Europa di D. immitis (Poglayen et al., 1996). Il quadro d’insieme era indicativo di una diffusione dell’infestazione pressoché generalizzata (Genchi et al., 1988) con una tendenza all’aumento dei tassi di prevalenza (Tarantini, 1983; Poglayen, 1988) e ad una crescente espansione interessando areali un tempo ritenuti indenni (Genchi, 1988). Per molti anni, la Pianura Padana, bacino idrografico del fiume Po, è stata considerata un’area iperendemica per FCP con un range di prevalenza dal 30-40% a oltre il 90% (Balbo e Panichi, 1968; Poglayen et al., 1988; Genchi et al., 1991). L’intera Valle Padana costituisce un enorme serbatoio di FCP (Poglayen et al., 1988), dove l’ospite, il vettore ed il parassita hanno trovato le condizioni più favorevoli per un reciproco bilanciamento (Genchi, 1988). Nasce così l’idea di aggiornare i dati e di svolgere uno studio epidemiologico sulla FCP in un’area della Pianura Padana, habitat ideale del vettore zanzara, con lo scopo di raccogliere informazioni sulla diffusione e sui tassi di prevalenza dell’infestazione in cani di proprietà, che vengono portati in ambulatori veterinari, e di stabilire se esistono delle relazioni fra i tassi di prevalenza con l’età, il sesso, la razza, il mantello, la provenienza dei cani, il tipo di profilassi effettuata; e relazioni tra la profilassi e il sesso, la razza, l’età, la provenienza dei cani. La FCP è una malattia grave i cui risvolti prognostici, terapeutici, profilattici e zoonotici non possono essere sottovalutati, essi richiedono un impegno professionale sempre più raffinato, anche sotto il profilo strumentale, un aggiornamento epidemiologico era necessario.


1. CENNI STORICI

1.1. Primi studi sulla filariosi del cane condotti in Italia

Sono passati tre secoli dalla scoperta ufficiale di Dirofilaria immitis, l’agente eziologico della filariosi cardiopolmonare del cane. Questo nematode fu segnalato per la prima volta in Italia nel 1626 da Francesco Birago, nobiluomo alla corte degli Sforza e Signore di Metano e di Siciano. Costui aveva riferito di aver eseguito esami necroscopici su due cani Levrieri di sua proprietà, morti di un male incurabile, e di aver quindi trovato nei loro reni e nel loro cuore la presenza di vermi, di cui descrisse, anche se in maniera alquanto approssimativa, la morfologia e la sintomatologia da essi causata (Ercolani, 1874).
Due secoli più tardi, nel 1808, Giovanni Verardo Zeviani (1725-1808), descrisse di aver trovato nel cuore sinistro di un cane di razza Barbone, deceduto probabilmente a causa di un avvelenamento, quattro vermi viventi tondi, di forte pasta come carta pecora, lisci, giallognoli, privi del tutto di ogni rossezza (Zeviani, 1808). Il fatto che l’autore, nel presentare i suoi studi avesse concluso che i parassiti fossero presenti nel cuore sinistro anziché nel destro, non deve destare profonda attenzione poiché costui mancava di rigore e accuratezza di indagine secondo quanto ci è stato riferito nel 1819 da Rudolphi Carolus Asmundus (Tassi, 1988).
Nel 1840 Antonio Alessandrini (1786-1861) trovò tre esemplari di filarie nel cadavere di un cane che fu utilizzato nella città di Bologna a scopo didattico, e registrò questo reperto nel suo catalogo con il numero 1685 con la notazione di pare una Spiroptera.
Si deve però considerare il fatto che questo parassita non fu mai descritto ufficialmente, altrimenti sarebbe da valutare come la prima notizia storicamente attendibile di Filaria immitis.
Scorrendo gli anni che si susseguono tra il 1840 e la fine del secolo XIX , si può determinare come questi furono via via contrassegnati da un fiorire di ricerche e segnalazioni sulla filariosi del cane, le cui conoscenze andarono di pari passo, e a volte precedettero, le scoperte sulla filariosi dell’uomo fatte dai grandi della parassitologia mondiale come Otto Wucherer, Salisbury, Thomas Spencer Cobbold, Joseph Bancroft, Patrick Manson, e quelle sulla malaria.
Nel 1843 e 1844 Gruby e Delafond scoprirono la presenza di embrioni di filaria, microfilarie, circolanti nel sangue dei cani e l’annunciarono al mondo della scienza nelle loro due famose note, l’una fu Note sur une alteration vermineuse du sang d’un chien determinée par un grande nombre d’hematozoires du genre Filaire, l’altra Deuxieme note sur l’alteration vermineuse du sang des chiens par un hematozoaire du genre Filaire.
Gli stessi autori avevano dimostrato successivamente, nel 1852, in una terza nota, che gli embrioni di filaria circolanti nel sangue, erano i figli partoriti dalle forme adulte, presenti nelle cavità del cuore destro, degli stessi animali infestati, a cui diedero il nome di Filaria papillosa haematica canis domestici (Gruby e Delafond, 1852). In questa nota gli autori si posero il problema di come si svolgesse il ciclo biologico del parassita ed ipotizzarono che le microfilarie, dopo essersi evolute, non potendo più restare nei capillari, migravano nei vasi di calibro maggiore e nel cuore dove diventavano adulte. I due ricercatori francesi eseguirono esperimenti di trasfusione e di trasmissione senza arrivare però a capire, in definitiva, come il parassita potesse riuscire a spostarsi da un ospite all’altro.


1.2. Evoluzione degli studi sulla tassonomia

Durante la metà del 1800 si svolgono sempre più frequentemente nuove ricerche e scoperte sulla tassonomia, sulla biologia e sulla patogenesi della filariosi canina.
Nel 1856, Leidy, ricercatore americano, descrisse in modo corretto il parassita che aveva recuperato nel cuore di un cane a Philadelphia: la prima denominazione che gli diede fu di Filaria canis cordis, che successivamente decise di rinominare in Filaria immitis, denominazione che rimarrà sino ai giorni nostri (Leidy, 1856).
Per quanto riguarda il territorio italiano nel 1859, Giovanni Battista Ercolani, Conte Bolognese, aveva riferito di aver osservato più volte questo verme…che ha più i caratteri di un nematoideo allo stato embrionale che di un animale perfetto (Ercolani, 1859). L’autore fece una generica rassegna dei vermi raggruppabili come filarie considerando anche l’esistenza della Filaria dell’occhio dei cani, osservata da Dujardin, e della Filaria del sangue dei cani, osservate da Gruby e Delafond. Poco più di dieci anni dopo, precisamente nel 1862, Baillet descrisse la presenza di vermi nel cuore dei cani e li denominò Dochmius Trigonocephalus, in seguito Strongiylus Trigonocephalus ed infine Strongylus vasorum (Baillet, 1862). Ma un anno più tardi Ercolani riferì di una necroscopia eseguita su un cane di razza Bracco che era morto improvvisamente senza causa apparente: dagli accertamenti risultanti sul corpo dell’animale erano stati rinvenuti nell’arteria polmonare 15 vermi adulti, 4 maschi e 11 femmine, di cui lo scienziato diede una sommaria descrizione: nel sangue del cane erano presenti embrioni simili a quelli individuabili negli ovidutti dei parassiti adulti di sesso femminile. Il ricercatore classificò allora questi vermi come Spiroptera sanguinis e li mise nel Museo di Milano, dove sono conservati con il numero 1788 (Ercolani, 1874). Nel 1866, Schneider riclassificò i vermi che gli elmintologi avevano ripartito tra il genere Filaria e il genere Spiroptera riunendoli tutti sotto il genere Filaria.


1.3. Il ciclo biologico e le sue tappe più significative

Per quasi cinquant’anni la storia della filariosi dell’uomo e la storia della filariosi del cane andarono di pari passo. Si può infatti affermare che le scoperte che venivano effettuate in un campo, di conseguenza, confluivano nell’altro.
Sono le maggiori Scuole di parassitologia dell’epoca, e cioè quella di Roma e quella di Londra, l’una guidata da Giovan Battista Grassi e l’altra da Patrick Manson, che danno i maggiori contributi alla definizione della biologia delle filariosi (Giangaspero, 1987).
Delafond e Gruby nella loro terza nota, come già detto nel precedente paragrafo, ipotizzarono, già nel 1852, che gli embrioni, circolanti nel sangue del cane, una volta sviluppati dovessero migrare nei grandi vasi e nel cuore dove diventavano adulti. Gli stessi autori, non riuscirono in ogni caso a spiegare come fosse possibile reperire gli embrioni nel sangue e nello stesso tempo non trovare i parassiti adulti, che li avevano generati, nel sistema cardiocircolatorio nonostante ricerche accurate (Tassi, 1988).
Giovanni Battista Ercolani chiarì questo problema biologico dimostrando che era possibile ritrovare le forme adulte nel tessuto sottocutaneo dei cani e osservò che questi parassiti erano perfettamente sviluppati nei due sessi e pertanto in grado di riprodursi. Egli inoltre aveva intuito, che le filarie adulte presenti nel sottocute potessero appartenere ad una specie diversa da D. immitis (Ercolani, 1874).
A Pisa, nel 1888, Prospero Sonsino era giunto alle stesse conclusioni a cui era arrivato il suo collega ed aveva ritenuto corretta l’ipotesi che gli embrioni circolanti fossero i figli dei vermi presenti nel cuore grazie alla somiglianza morfologica esistente fra le microfilarie circolanti e quelle presenti negli uteri delle femmine adulte, anche quando queste apparivano assenti a livello cardiaco probabilmente per la loro localizzazione variabile.
Furono questi gli anni in cui apparvero le prime descrizioni concernenti i casi clinici di filariosi cardiaca occulta riportati da Sonsino: il Dott. Silvia Araujo riferì di un cane affetto dalle forme adulte di F. immitis, nel quale non vi erano embrioni circolanti, in quanto i vermi adulti erano tutti maschi; mentre Manson riferì di due casi clinici in cui gli adulti erano solo femmine (Sonsino, 1888).
Si può quindi concludere affermando che agli inizi dell’ultimo decennio del XIX secolo si avevano a disposizione diverse informazioni; prima di tutto si era giunti all’accertamento della presenza, tutt’altro che rara, di ematozoi circolanti nel sangue dei cani; in secondo luogo si era potuto stabilire che questi erano forme embrionali di parassiti adulti. Era stato altresì chiarito che gli adulti potevano risiedere nel cuore destro, nei suoi vasi efferenti o in altre parti del corpo dell’animale; infine a questo parassita era stato dato il nome ufficiale di Filaria immitis Leidy.
Come i nematodi arrivassero all’interno del cane, ospite definitivo, e come si trasferissero da un animale all’altro era tuttavia ancora da chiarire.


1.4. Ipotesi sulla trasmissione

La prima suggestiva, quanto fantasiosa, ipotesi sulla trasmissione della filariosi fu formulata da Lamprey nel 1873. Secondo questo autore la causa della estrema frequenza della F. immitis nel sangue dei cani della Cina dipendeva dalla loro abitudine di cibarsi principalmente di feci umane parassitate da uova di Ascaridi: da queste uova egli suppose che avessero origine le filarie (Ercolani, 1874).
Dopo queste primitive congetture ne seguirono altre più verosimilmente scientifiche. Per circa trent’anni continuò ad avere credito la teoria della trasmissione attraverso il tubo digerente (per ingestione delle filarie), l’unica via, peraltro, che potesse giustificare la presenza delle filarie nel sangue. Nonostante le osservazioni di Gruby e Delafond (1843) sulla impossibilità delle microfilarie di sopravvivere nei succhi gastrici e nelle secrezioni fisiologiche, in Italia, Solera, nel 1876, sostenne per lungo tempo la teoria che gli embrioni di filaria ingeriti, dopo un periodo di incubazione nei villi intestinali di un cane, passavano nei vasi linfatici e quindi nel sangue, dove evolvevano e diventavano adulti (Solera, 1876).
Le conoscenze sulla filariosi umana, procedevano comunque molto rapidamente: Otto Wucherer, nel 1866, trovò embrioni di filaria nel sangue dell’uomo; Timothy Lewis, nel 1872, descrisse gli embrioni di Filaria sanguinis hominis; Joseph Bancroft, nel 1876, in un ascesso e nel fluido raccolto da un idrocele, scoprì le forme adulte di quella che l’elmintologo Thomas Spencer Cobbold, in suo onore, chiamò Filaria Bancrofti (Tassi, 1988).
Spetta proprio a Joseph Bancroft il merito di aver intuito, nel 1877, il possibile coinvolgimento di un vettore nel ciclo biologico delle filarie. Questa ipotesi, destinata a fornire sviluppi importanti anche in altri campi di ricerca, come la malaria, non poté essere confermata dall’autore a causa della sua precoce scomparsa. Andrà a Manson, della Scuola di Londra, il merito di aver fornito la conferma e di aver chiarito nei dettagli l’intuizione dell’intervento di un vettore nel ciclo biologico. Egli gettò le basi di quella che verrà definita la teoria dei Mosquitos: una teoria estremamente nuova, anche se il ruolo degli artropodi vettori nella trasmissione di alcune malattie parassitarie era già di attualità in quel periodo. Questo studioso, infatti, nel 1878, non solo rilevò la presenza di filarie nello stomaco di zanzare del genere Culex, ma scoprì che al loro interno subivano delle mute. Il problema di come le zanzare riuscissero a trasmettere la malattia rimaneva però insoluto. L’ipotesi più accreditata, già avanzata da Bancroft (1877), sosteneva che gli embrioni di filaria, una volta sviluppatisi negli artropodi, si liberassero dal corpo della zanzara quando questa si disgregava nei fossati, nelle paludi e negli acquitrini, e venissero in seguito accidentalmente ingeriti dall’uomo con l’acqua, che veniva così infestata (Manson, 1878).
All’inizio del 1888, Sonsino riuscì ad infettare e ad ottenere forme evolutive avanzate di F. immitis sia in pidocchi, sia in pulci allevate su cani filariemici, anche se in una bassa concentrazione di esemplari, senza però essere in grado di chiudere il ciclo, di compiere quello che il Grassi definì experimentum crucis e cioè l’infezione sperimentale attraverso ospiti intermedi (Sonsino, 1888).
La scoperta, circa un decennio più tardi, nel 1889, da parte di Thomas Bancroft, figlio di Joseph Bancroft, che le filarie non sopravvivevano nell’acqua, indusse lo stesso a pensare che soltanto l’ingestione o lo schiacciamento di una zanzara viva infetta, e quindi solo il trasporto passivo degli embrioni alla bocca dell’ospite, potesse garantirne la trasmissione della malattia. Tuttavia, l’autore azzardò l’ipotesi che anche la puntura delle zanzare potrebbe essere responsabile della trasmissione delle filarie (Bancroft, 1889). Contemporaneamente, il ritrovamento delle filarie del cane in zanzare appartenenti alla specie Anopheles claviger compiuto da Grassi permise a questi di formulare la stessa teoria (Grassi, Calandruccio, 1889).


1.5. Studi sperimentali compiuti da Grassi e Noé

Dall’estate del 1900 fino al 1903, Grassi e Noè, ricercatori della Scuola di Roma, pubblicarono una serie di ricerche per chiarire i seguenti punti: in primis se la F. immitis venisse trasmessa al cane esclusivamente attraverso la puntura della zanzara o anche o solo attraverso la via orale, in seguito quale fosse il meccanismo con il quale le larve delle filarie fuoriuscivano dalla cavità generale del corpo della zanzara, infine quale fra i generi e le specie di zanzare presenti nelle zone endemiche fosse più idonea alla trasmissione (Noè e Grassi, 1900, 1901, 1903).
Per rispondere alla prima di queste domande furono infestati, fra il luglio e l’ottobre del 1900, per inoculazione naturale mediante la puntura di zanzare o artificialmente per inoculazione di larve prelevate da zanzare infette, 9 cani. Come fonte di larve di filarie vennero utilizzate zanzare del genere Anopheles catturate a Porto, nei pressi di Fiumicino, in un ambiente dove vivevano cani affetti da filaria. Durante le prove, i cani vennero tenuti in ambienti isolati, ma non si può escludere che alcuni di essi avessero avuto la possibilità di infestarsi in precedenza. Nel primo cane, di età superiore ad un anno, fu trovata una porzione di un nematode riportabile alla F. immitis, dopo solo 16 giorni dall’aver inoculato, praticando una piccola incisione sulla cute, pochi embrioni recuperati per dissezione da due zanzare. I cani numero 2 e 3 risultarono infestati anche da una filaria diversa da quella inoculata da Grassi e Noè da ciò si può supporre che anche la F. immitis derivasse da una precedente infestazione naturale. La stessa ipotesi vale anche per i cani numero 8 e 9, nei quali, dopo essere stati infestati nell’agosto del 1900 e sottoposti ad autopsia a settembre dell’anno successivo, risultarono positivi per la presenza di una femmina adulta ma infeconda. Gli altri 4 cani (numeri 4, 5, 6, 7) diedero invece esito negativo. I due ricercatori già dopo il primo reperto affermarono che i fatti dimostrano, senza alcun dubbio, che anche le filarie del sangue, come i parassiti malarici, vengono inoculati per la puntura di peculiari zanzare.
Grassi e Noè dimostrarono finalmente che le forme larvali delle filarie lasciavano passivamente la zanzara, la quale, durante il pasto di sangue, grazie ad un meccanismo attivo di rigonfiamento e ripiegamento dell’apparato buccale (proboscide o labium), le trasmette al cane o all’uomo (Grassi e Noè, 1900).
I due ricercatori osservarono inoltre che il parassita, oltre ad Anopheles claviger (An. maculipennis), poteva infestare anche molte altre specie appartenenti allo stesso genere. Questa infestazione era possibile anche per Culex penicillaris e Cx. malarie (Aedes vexans) che pure avevano una distribuzione limitata alle località malariche, mentre riusciva molto difficile in Cx. pipiens. Noè attribuì il motivo di questa resistenza di Cx. pipiens alla particolare alterazione cui andava incontro il sangue appena succhiato da questa specie (Tassi, 1988).
Questo particolare tipo di studi fu ripreso, oltre mezzo secolo più tardi, da Coluzzi e Trabucchi i quali hanno potuto dimostrare che alcune specie di zanzare erano resistenti all’infestazione da filarie per la presenza di una particolare armatura bucco-faringea che lacerava la cuticola delle microfilarie durante l’ingestione del pasto di sangue, rendendole quindi incapaci di proseguire il loro sviluppo in questo invertebrato (Coluzzi, Trabucchi, 1968).
A conclusione di tutto ciò è importante ricordare alcuni concetti espressi da Grassi e da Noè che precedono le nozioni fondamentali degli studi epidemiologici moderni (Noè, Grassi, 1903). Grassi notò come la distribuzione della filariosi nel cane in Italia era del tutto sovrapponibile a quella di certe specie di zanzare appartenenti al genere Anopheles per cui ipotizzò che tra la malattia e l’artropode ci fosse una stretta correlazione. I due ricercatori, inoltre, si accorsero che, sebbene gli Anopheles fossero abbondantissimi in zone ristrette dove erano presenti animali filariosici, si trattava infatti di un luogo nei pressi di Fiumicino dove i due ricercatori avevano catturato zanzare infette che erano servite in seguito per i loro esperimenti sui cani, in realtà la percentuale di zanzare positive era molto bassa e non superava mai il 2%. I due scienziati diedero allora una spiegazione di tipo biologico di questo fenomeno: osservarono che quando le zanzare assumevano attraverso la puntura un numero rilevante di embrioni di filaria, morivano presto per le alterazioni indotte da queste nei tubuli malpighiani. Interpretarono questa manifestazione come un mezzo utile alla limitazione dell’infestazione al mammifero; infatti se tutte le zanzare che si infestavano fossero sopravvissute, in breve tutti i mammiferi recettivi sarebbero stati tanto ammalati da mettere a rischio la loro esistenza e conseguentemente anche quella degli artropodi e degli stessi parassiti. La natura perciò, eliminando i vettori troppo pericolosi, è in grado di permettere lo stabilirsi di un equilibrio necessario alla sopravvivenza delle tre specie.
Tuttavia i ricercatori di Roma non avevano riconosciuto le differenze biomorfologiche esistenti fra la loro F. immitis e la F. immitis di Leidy, forse perché a Roma non si trovava la vera D.immitis (Tassi, 1988).
Pochi anni dopo, nel 1911, Raillet e Henry descrissero e diedero il nome ad un’altra filaria del cane, Dirofilaria repens, parassita che vive da adulto nel tessuto sottocutaneo, che molto probabilmente era stata oggetto delle indagini sul vettore condotte dallo stesso Grassi e Noè, nel 1900 e nel 1903 (Cancrini, 1998).
Furono queste le scoperte fondamentali, e cioè quelle effettuate a cavallo degli anni fra il 1800 e il 1900, che hanno tracciato la strade allo studio della biologia delle filariosi, e sono ancora queste a cui, ancora oggi, facciamo riferimento.


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