3. EPIDEMIOLOGIA


3.1. Distribuzione geografica

La filariosi cardiopolmonare ha una distribuzione cosmopolita interessando molte parti del mondo tra cui il Canada, gli Stati Uniti, in particolare la Valle del fiume Mississippi, per quel che riguarda l'America settentrionale; le coste del Golfo del Messico, il Venezuela e le isole Caraibiche se si prende in considerazione l'America centrale ed infine il Brasile e l'Argentina per ciò che concerne l'America meridionale. La malattia è diffusa inoltre in Giappone, in Australia, in Africa e in Sud Europa. Nel Bacino del Mediterraneo la più estesa area endemica è situata nel Nord Italia, negli areali della Pianura Padana, ma la parassitosi è presente anche in Francia, Corsica, Spagna, Portogallo, Grecia e Turchia (Genchi et al., 2007). Il parassita è stato inoltre segnalato in cani residenti in Germania e Austria, animali che avevano soggiornato per periodi anche brevi in aree endemiche (Hinaidy et al., 1987).


3.2. Specie recettive

L'infestazione da D. immitis è stata segnalata in un'ampia varietà di specie animali; più di 30: cane, furetto, coyote, volpe, dingo, lupo, altri canidi selvatici, roditori, leone marino, cavallo, cammello, felini domestici, selvatici e primati. L'uomo, come altri mammiferi, può fungere da ospite accidentale, nel quale il ciclo del parassita non si completa (Schrey, 1996). La malattia ha importanza clinica soprattutto nel cane, che è considerato l'ospite definitivo e anche il serbatoio della parassitosi.


3.3. Fattori principali che condizionano la diffusione della malattia

   3.3.1. Il reservoir

Il serbatoio di una malattia è un sistema ecologico (Ashford, 1997) costituito da una o più popolazioni epidemiologicamente collegate e/o da ambienti dove l'agente patogeno può sopravvivere in modo permanente e da cui l'infestazione è trasmessa alla popolazione ospite (Haydon et al., 2002). I serbatoi della FCP sono rappresentati dagli ospiti microfilariemici ed il cane è la specie in cui questa condizione, in assenza di controllo, si verifica con elevata frequenza (Genchi e Rossi, 1998). Nelle aree italiane endemiche, il rischio di infestazione e la prevalenza della parassitosi in cani non sottoposti a profilassi farmacologica sono elevatissimi (Poglayen et al., 1988). I cani di tutte le età, razze e sesso sono suscettibili alla malattia.
Il gatto (ospite alternativo) ha un ruolo marginale come serbatoio e non contribuisce significativamente alla diffusione della malattia, avendo poche forme parassitarie che diventano adulte con una microfilariemia spesso assente. La filariosi cardiopolmonare, pertanto, è difficilmente diagnosticabile in questa specie animale per il fatto che la valutazione della microfilariemia spesso risulta furviante (microfilariemia assente o di modesta intensità o transitoria) ed anche altri tipi di indagine (test immunologici) risultano spesso falsamente negativi (Atkins et al., 1995). Queste difficoltà determinano una sottostima della prevalenza della malattia, nelle zone endemiche del Nord Italia, con valori medi compresi tra il 5 e il 23% (Genchi et al., 2007). Inoltre, mentre nei cani, non sottoposti a profilassi farmacologica, la malattia è più grave negli animali che dormono all'aperto, nel gatto questo accade soprattutto in quelli che dormono in casa. Il tutto sembra legato al fatto che i gatti, che trascorrono la maggior parte del tempo in ambiente esterno, sono in grado di elaborare una risposta immunitaria che li rende in parte resistenti all'infestazione (Genchi e Rossi, 1998).

    3.3.2. Il vettore

Le zanzare sono artropodi appartenenti all'ordine Diptera, al sottordine Nematocera e alla superfamiglia Culicoidea. Si tratta di ditteri, di piccole o medie dimensioni, raggruppati in tre grandi famiglie: Dixidae, Cotheridae e Culicidae. L'abitudine di nutrirsi di sangue è propria soltanto della famiglia Culicidae. Nella Pianura Padana i generi di Culicidi, ospiti intermedi, interessati alla trasmissione della parassitosi sono: Anopheles, Culex, Aedes, Culiseta, Mansonia e Conquillettidia (Cancrini, 1998). Il ruolo dei vettori, rappresentati da oltre 3000 specie nel mondo e circa 60 specie solo in Italia, sta evolvendo rispetto alle aree geografiche (Coluzzi e Trabucchi, 1968; Di Sacco et al., 1992). La situazione sembra essere dinamica, con nuove specie come Aedes albopictus che viene riconosciuta come vettore (Cancrini et al., 1992).
L'attività di ricerca dell'ospite, su cui effettuare il pasto di sangue, segue ritmi circadiani diversi a seconda delle specie coinvolte: alcune pungono prevalentemente durante le ore notturne (Cx. pipiens e la maggior parte degli Anopheles); altre (An. gambiae, An. balabacensis, An. maculipennis) soprattutto alle prime ore del mattino ed altre ancora (Ae. aegypti, Ae. caspius, Cx. modestus) presentano due picchi di attività, uno all'alba ed uno al tramonto (Pollono et al., 1997).
Anche le preferenze per l'ospite sono differenti: esistono specie strettamente zoofile e specializzate nel nutrirsi su rettili, uccelli, mammiferi, ed altre che oltre ad essere più ampiamente zoofile possono essere anche antropofile. Queste ultime sono di particolare interesse per la trasmissione della dirofilariosi all'uomo (Pampiglione et al., 1995). Le preferenze alimentari delle zanzare dipendono da vari fattori, tra cui l'attrattività e il comportamento dell'ospite. Si è osservato che il cane, a parità di condizioni attrae un maggior numero di esemplari di Ae. caspius, Cx. pipiens, An. maculipennis e Cs. annulata rispetto al gatto (Di Sacco et al., 1992). L'attività di queste specie di zanzare si esplica dal tramonto all'alba, del giorno successivo, e ciò potrebbe spiegare la maggiore attrattività del cane rispetto al gatto. Di notte infatti il cane si ritira nella cuccia, luogo ricco di elementi attrattivi per le zanzare (anidride carbonica, temperatura ed umidità), mentre il gatto è in continuo movimento. Le zanzare, che necessitano di un certo tempo di contatto con l'ospite per nutrirsi, sono probabilmente disturbate dalla sua attività e, forse, meno attratte dalla più piccola taglia del gatto (Cancrini, 1998).
Alcune specie e, nell'ambito della stessa specie, alcuni ceppi ed individui possono essere vettori del parassita più efficienti di altri per la presenza di meccanismi di difesa, che permettono di bloccare lo sviluppo delle larve di D. immitis nel vettore e regolare, quindi, la carica infestante (Coluzzi e Trabucchi, 1968). Cx. pipiens ed alcune specie di Anopheles presentano, in corrispondenza del faringe, un'armatura cibarica, provvista di denti e spine, capace di danneggiare meccanicamente alcune delle microfilarie ingerite e ucciderle.
L'importanza di una specie di zanzara nell'epidemiologia della filariosi non dipende solo dalla suscettibilità all'infezione e dalla competenza ed efficienza nel trasmettere larve infestanti, ma anche dalle dimensioni della sua popolazione, dai ritmi dell'attività ematofaga, dalla longevità e dalla stagionalità dell'insetto.

    3.3.3. L'ambiente

I Culicidi sono presenti in tutto il mondo e si ritrovano in aree dove è disponibile l'acqua, necessaria per la riproduzione: importante è la presenza di fiumi, laghetti, stagni, fossati. L'elevato grado di adattabilità che caratterizza questi artropodi ha permesso loro di colonizzare qualsiasi tipo di ambiente, zone pianeggianti, collinari, montane e marine. Ogni specie si è adatta a particolari superfici di acqua per l'ovodeposizione e lo sviluppo larvale: acque dolci o salmastre, calde o fredde, pure o contaminate.
Lo sviluppo e l'attività dei culicidi, come pure la sopravvivenza e lo sviluppo delle larve di D. immitis nel dittero, sono influenzati soprattutto dalla temperatura (Cancrini et al., 1988). Affinchè le microfilarie possano maturare fino a raggiungere lo stadio infestante (L3) all'interno del vettore zanzara, la temperatura media giornaliera deve essere almeno superiore a 14°C per circa un mese di seguito. Fino ad un certo limite, più è elevata la temperatura più è breve il periodo di incubazione dei parassiti all'interno delle zanzare. Pertanto lo sviluppo può avere tempi brevi (8-10 giorni), quando la temperatura media giornaliera è di 30°C o lunghi (28 giorni), quando la temperatura media giornaliera è di circa 18°C.
Il rischio di infestazione è maggiore nei paesi in cui la stagione di attività degli insetti è più lunga. Nella maggior parte delle aree endemiche, a clima temperato, la probabilità della trasmissione della FCP aumenta in modo significativo durante la primavera e raggiunge un picco massimo durante i mesi di luglio e agosto (Genchi et al., 1992). La probabilità invece declina durante la stagione autunnale. Nei paesi a clima tropicale, invece, le generazioni di zanzare si susseguono per tutto l'anno.
L'antropizzazione del territorio, con conseguente aumento della densità degli ospiti definitivi (cani), può contribuire alla creazione di habitat idonei allo sviluppo dei culicidi anche durante il periodo invernale. In ambito europeo la Pianura Padana, soprattutto le aree medie e terminali del corso del fiume Po, è quella che più risponde a queste caratteristiche. Da queste zone la malattia si è diffusa in Toscana interessando il litorale e risalendo lungo il corso dell'Arno e nelle aree appenniniche e prealpine fino in Svizzera. Il parassita è assente o ha una prevalenza molto bassa nelle altre regioni centrali e, soprattutto, nelle regioni meridionali italiane dove è però presente D. repens (Genchi et al., 1995).


3.4. Studi epidemiologici condotti in Italia

    3.4.1. Progressiva diffusione della parassitosi

Con gli anni '80, stimolati dall'industria farmaceutica, esplodono gli studi epidemiologici relativi sia alla presenza e alla diffusione delle diverse specie di filarie nelle regioni italiane, sia ai vettori e al rapporto parassita-vettore-ambiente, allargati ai fattori di rischio (Poglayen et al., 1988).
Numerose indagini epidemiologiche sono state condotte, oltre che in Italia, in vari paesi del mondo come Francia, Spagna, Brasile ed Argentina per ricavare, in modo più approfondito, informazioni sulla diffusione di D. immitis. I dati emersi hanno evidenziato una progressiva espansione della diffusione della filariosi cardiopolmonare del cane, nei diversi paesi del mondo (Guerrero, 1988).
L'elemento certamente evidente era quello per cui la FCP si era diffusa in tutto il territorio italiano (Pampiglione et al., 1986) e sembrava espandersi oltre le classiche zone di endemicità (Genchi, 1988), ma ancora non era dato sapere con certezza se il fenomeno fosse stato da attribuire ad un effettivo aumento della prevalenza, legato ad esempio alla dinamica dei culicidi vettori, o piuttosto ad una maggiore sensibilizzazione dei medici veterinari coinvolti nella diagnosi, o ancora ad un accresciuto interesse dei proprietari dei cani. Indubbiamente una crescente attenzione nei confronti dei piccoli animali, una preparazione più affinata ed un puntuale aggiornamento dei colleghi veterinari, uniti all'attenzione delle case farmaceutiche, avevano giocato un ruolo importante in questo fenomeno (Poglayen et al., 1988).

    3.4.2. Indagini epidemiologiche condotte sui cani

Il primo tentativo di mappare la distribuzione delle filarie (D. immitis, D. repens, Dipetalonema spp.) del cane a livello nazionale, fu nel 1986 ad opera di Pampiglione ed alla collaborazione di alcuni colleghi. Questi difatti dimostrarono che il 74% delle province italiane erano infestate da D. immitis con una prevalenza di almeno il 5%.
Tra gli altri, uno studio epidemiologico condotto tra il 1966 ed il 1967 da Balbo e Panichi, definì la prevalenza e la distribuzione di D. immitis, D. repens e Dipetalonema spp. in 550 cani, provenienti questi da diverse province del Piemonte (Balbo e Panichi, 1968).
Genchi e colleghi effettuarono un'indagine nel Nord Italia su 5487 cani, nel periodo tra aprile 1986 e giugno 1987. Dai risultati emerse che D. immitis aveva una prevalenza globale del 24%, con valori compresi tra il 6 e il 12% in alcune grandi città come Milano, e tra il 75 ed il 95% nelle zone vicine al fiume Po (Guerrero, 1988). In seguito, durante il periodo compreso tra l'aprile e il settembre 1988, gli stessi autori svolsero un ulteriore indagine epidemiologica su un largo campione di cani, con l'obbiettivo di verificare in modo più completo la prevalenza e la diffusione della filariosi cardiopolmonare nella popolazione canina in Italia. Da ciò emerse come il principale focus naturale dell'infestazione fosse localizzato nella Pianura Padana, lungo il corso del fiume Po, dove l'ospite, il vettore ed il parassita trovavano le condizioni più favorevoli per un reciproco bilanciamento (Genchi, 1988). In questa area, i tassi di prevalenza arrivavano oltre il 90% nei cani che vivevano prevalentemente all'aperto in alcune zone limitrofe al corso del fiume Po (Genchi, 1987; Poglayen et al., 1988) e l'infestazione appariva in espansione verso le aree periferiche, sino a quel momento considerate indenni, come la provincia di Varese (Genchi et al., 1988).
Nell'Italia centro-meridionale invece la prevalenza era generalmente contenuta (< 5%), anche se un focus naturale di infestazione era stato evidenziato lungo la costa tirrenica della Toscana in provincia di Grosseto: nel Comune di Castiglione della Pescaia, per esempio, la percentuale della popolazione canina positiva per D. immitis risultò essere del 21% (Genchi et al., 1988).
Sulla base dei dati ottenuti, gli studiosi ipotizzarono che le condizioni climatico-ambientali ed in particolare la temperatura, fossero i fattori che in maggior modo condizionavano l'epidemiologia dell'infestazione. Da tutto questo risultava ormai prioritario svolgere un più completo monitoraggio, perlomeno nell'ambito delle Province dove i tassi di prevalenza raggiungevano il 5%, per evidenziare altre aree a rischio (vedi indagine di Poglayen in alcuni comuni della provincia di Bologna), dalle quali la malattia poteva diffondersi: non a caso il dato comune che sembrava affiorare dalle indagini più recenti era quello di una tendenza all'aumento dei tassi di prevalenza (Tarantini et al., 1983; Poglayen, 1988) e più in generale, della diffusione della infestazione.
Di non facile interpretazione erano le forti variazioni dei tassi di prevalenza di D. immitis osservate in zone limitrofe alle aree endemiche o tra areali caratterizzati da condizioni climatico-ambientali apparentemente simili. Se si considerano per esempio gli areali compresi tra l'Isola d'Elba e Grosseto (a circa 60 km di distanza), si vede come la distribuzione di D. immitis subisce notevoli modificazioni. Significative differenze si potevano inoltre osservare tra la costa tirrenica e quella adriatica, anche se le caratteristiche eco-ambientali dei due biotipi apparivano sotto molti aspetti simili sia per quanto riguardava l'habitat sia per i popolamenti di ditteri ematofagi. A tal proposito Coluzzi (1988) segnalò che la distribuzione di Ae. caspius e delle specie di Anopheles era pressoché uniforme sul territorio nazionale: dunque anche se la presenza degli ospiti intermedi costituiva un fattore importante per il ciclo del parassita, non sembrava di per sé stesso quello discriminante e tale da giustificare le basse prevalenze riscontrate nella maggior parte delle regioni del Centro-Sud d'Italia. Partendo dal presupposto che la densità della popolazione canina fosse pressoché omogenea nel contesto del territorio nazionale, non restava che concludere che i fattori determinanti la distribuzione delle infestazioni erano in qualche modo dipendenti dai meccanismi che controllavano lo sviluppo larvale del parassita (Genchi et al., 1988). Sul piano epidemiologico, però, non andavano trascurati i fattori più strettamente legati all'uomo, quali quelli socio-economici, (campagne per l'affidamento dei soggetti abbandonati; aumento dei cani di proprietà; il cane che quale componente del nucleo familiare segue l'uomo durante le attività di svago o di vacanza in aree che possono essere a rischio), che avevano sicuramente contribuito alla diffusione della infestazione.
In due periodi diversi, Poglayen e colleghi condussero un'indagine sulla diffusione delle filariosi del cane in due zone dell'Emilia Romagna: nel periodo che andava tra il luglio 1987 e il luglio 1988 in provincia di Bologna, e nel periodo compreso tra marzo 1984 e dicembre 1985 nel delta del Po. I risultati erano rappresentativi di due aree geografiche di diversa importanza epidemiologica: la prima ai confini del bacino idrografico del Po, con una prevalenza di filariosi canina del 41% su 891 soggetti, la seconda nel cuore del Delta con una prevalenza di filariosi canina del 64%, su 109 soggetti. Rispetto alla filariosi cardiopolmonare il bacino idrografico del Po appariva una zona di endemicità molto elevata e soprattutto omogenea (Poglayen et al., 1988). Questo era dovuto all'intervento dell'uomo che, pur avendo bonificato le zone paludose, vi aveva mantenuto una fitta rete di canali per l'irrigazione che riuscivano a rendere ugualmente queste aree adatte alla proliferazione dei culicidi vettori. L'intera Valle Padana costituiva di certo un enorme serbatoio della parassitosi e quindi un elevato rischio per animali che vi venivano condotti (Poglayen et al., 1988).
Un ulteriore studio epidemiologico, effettuato nel 1991 su 275 cani del Nord Italia (Veneto e Friuli Venezia Giulia), permise di valutare in maniera più approfondita la diffusione della FCP nei pressi della zona iperendemica della Pianura Padana (Poglayen et al., 1996). La prevalenza media risultò essere del 44%, con un picco del 55% nella provincia di Venezia, che rappresentava il confine a nord est della Valle del Po. Nelle province di Pordenone, Udine, Trieste, Treviso e Belluno, i soggetti che ad un esame diretto, precedentemente, erano risultati negativi, furono in seguito trovati positivi con analisi sierologiche (Poglayen et al., 1996). L'infestazione risultava essere endemica nel Sud Italia, iperendemica nella Valle del Po e sporadica nel resto d'Italia. La malattia si stava diffondendo sia dentro aree prima infestate sia di là dai loro confini (Poglayen et al., 1996) e si stava diffondendo verso le Valli Appenniniche, ovvero la parte sud della Valle del Po (Genchi et al., 1988). Nelle aree endemiche, come ad esempio Pavia, la prevalenza stava raddoppiando o addirittura triplicando (Genchi et al., 1991).
Dall'indagine di Balbo e Panichi del 1967, la diffusione della FCP ha avuto una progressiva crescita ed è stato calcolato che il fronte si stava spostando con una velocità per anno che assomigliava al volo medio conosciuto per diverse specie di zanzare, che vivono in aree a clima temperato (Euzeby, 1988; Snow, 1990). La prevalenza e la velocità di diffusione sembravano screditare la visione di quel periodo che lo spostamento dei cani microfilariemici, in zone non infestate, fosse la maggior causa della diffusione di D. immitis in Italia (Genchi et al., 1991). Al più sembrava ragionevole affermare che un'adeguata popolazione di vettori e di animali infestati dovesse interagire (Poglayen et al., 1996). L'espansione della malattia poteva essere spiegata considerando diversi fattori d'interazione quali l'aumento della popolazione canina (randagi, di proprietà, di proprietà ma che sono lasciati liberi); la crescita nello spostamento dei cani; il riconoscimento di altre specie di zanzare, capaci di agire come vettori, e di altre specie animali, quali possibili ospiti definitivi, come volpi e gatti (Marconcini et al., 1992).
Sebbene l'interesse fosse limitato all'Europa meridionale, si era notata una somiglianza con la situazione presente in Nord America, dove la malattia si diffondeva rapidamente dalla Florida al Canada. Anche il resto dell'Europa non poteva essere escluso come una futura area di rischio (Poglayen et al., 1996).

    3.4.3. Relazione ospite-parassita: i fattori di rischio

Il dinamismo dell'infestazione insieme agli effetti di un massiccio uso di chemioprofilassi e misure terapeutiche potrebbe influenzare il modello epidemiologico (Poglayen, 1996). La diagnosi diretta e indiretta dovrebbe offrire un interessante modello di relazione ospite-parassita, dovuta al coinvolgimento della popolazione canina e alle dimensioni del parassita adulto. Può inoltre rappresentare un buon esempio animale per gli studi condotti sulla filariosi umana (Lock e Abraham, 1992).
Dal novembre 1990 al giugno 1991, un nuovo studio è stato condotto da Capelli e collaboratori nella provincia di Padova su 175 cani randagi, con lo scopo di raccogliere informazioni sulla parassitosi e di stabilire dei parametri relativi alla relazione tra l'ospite e il parassita. In questo territorio è stata rilevata una elevata prevalenza (67%) ed incidenza, insieme con una bassa intensità (19) e abbondanza (13) di FCP. Se si prende in esame l'arco temporale si può notare come il maggiore rischio di infestazione sia stato rilevato tra la fine di luglio e agosto, ed alcune nuove infestazioni siano state individuate in ottobre e forse anche nel mese di novembre (Capelli et al., 1996). In conclusione si può affermare che in condizioni naturali e senza interventi umani, la relazione ospite-parassita sembrava essere stabile (Anderson e May, 1978).
I dati parassitologici, raccolti dalle varie indagini svolte in Italia da Poglayen e colleghi (1987-'88; 1984-'85; 1991) furono correlati alle informazioni anamnestiche quali l'età, la razza, il sesso, la zona di provenienza, il soggiorno all'aperto, gli interventi farmacologici, per valutare una serie di presunti fattori di rischio.
Dallo studio epidemiologico condotto in Emilia Romagna nel 1987-'88, venne evidenziata una sostanziale uniformità delle prevalenze nelle classi d'età da 2 a 8 anni, mentre gli animali più colpiti apparivano quelli d'età compresa fra 8 e 11 anni. Il fenomeno era stato attribuito ad una maggiore esposizione ai culicidi vettori degli animali più anziani, soprattutto in una zona ad alta endemicità, ed alla relativa modulazione immunitaria diretta prevalentemente al controllo della microfilariemia piuttosto che all'eliminazione degli adulti (Genchi et al., 1988; Poglayen et al., 1988).
Le razze più colpite sembravano essere quelle da caccia e da pastore. Le differenti positività riscontrate nelle varie razze furono attribuite più alla funzione a cui gli animali erano destinati, che li esponeva all'attività dei ditteri, piuttosto che a una reale diversa recettività (Poglayen et al., 1996).
La malattia pareva privilegiare il sesso maschile fino a costituire un reale, anche se non elevato, fattore di rischio; questo poteva essere certamente dovuto alla più spiccata tendenza del maschio al vagabondaggio (Poglayen et al., 1988).
Nelle zone esaminate, i culicidi vettori sono attivi, non solo nelle ore notturne, ma anche di giorno. Questo influenzava le rispettive prevalenze e microfilariemie fra cani tenuti sempre in casa, che permanevano all'aperto di giorno, ed anche di notte. Gli ultimi due dati erano molto più elevati e comportavano un consistente rischio relativo. La maggiore presenza di zanzare assieme alla considerevole presenza di cani, faceva si che la malattia assumesse aspetti epidemiologici particolari: ad esempio la positività di animali d'età inferiore all'anno o l'adattamento dell'ospite alla parassitosi che, complice la modulazione immunitaria, aumentava la possibilità del cane di fungere da serbatoio per lungo tempo. A ciò bisognava aggiungere l'irrazionale uso, non preceduto da una corretta diagnosi di laboratorio, dell'ivermectina a scopo profilattico, che condizionava pesantemente la sensibilità dei test microscopici, aumentando il numero di filariosi occulte ed invalidando l'immagine di un prodotto sicuramente efficace (Poglayen et al., 1988).
Dall'indagine svolta da Poglayen nel 1991 nell' Italia settentrionale, risultò che la distribuzione dell'infestazione non differiva in modo significativo con il sesso e l'origine dei cani. La prevalenza di D. immitis e D. repens quindi non era statisticamente diversa nelle popolazioni di cani che vivevano nelle aree rurali rispetto a quelle urbane. La FCP sebbene non definitivamente dimostrata in cani che vivevano nell'area metropolitana di Torino era presente in cani dei sobborghi. L'infestazione autoctona era stata osservata da Genchi (1991) nell'area metropolitana di Milano.
Gli studiosi conclusero che l'infestazione tendeva a distribuirsi in modo uniforme sull'insieme della popolazione canina e non erano più percepibili differenze significative fra i tassi di prevalenza in relazione all'età, alla razza, al sesso, alle caratteristiche del mantello ed all'attitudine dei soggetti (Genchi et al., 1988; Poglayen et al., 1996), a suo tempo messa in evidenza da Balbo e Panichi (1968). La sola discriminante significativa appariva il ricovero notturno che alla luce dei riscontri epidemiologici, era risultata essere una valida misura di profilassi contro l'infestazione, anche in aree ad elevata endemia (Genchi et al., 1988; Poglayen et al., 1996).

    3.4.4. Filariosi nelle volpi in Italia

I programmi di controllo della popolazione condotti dal 1989 al 1992 in Toscana, permisero di esaminare le volpi e la loro fauna parassitaria. L'attenzione fu per prima cosa diretta alle filarie per stabilire la possibile relazione tra carnivori domestici e selvatici, riguardo la filariosi (Marconcini et al., 1996).
Le carcasse di 523 volpi, uccise in varie zone del territorio toscano, furono esaminate per la ricerca delle microfilarie e dei parassiti adulti. La microfilariemia, presente nel 30,59% delle volpi, era caratterizzata da 4 tipi di larve, quali quelle di Dip. dracunculoides (in 99 animali); Dip. reconditum (in 57 animali); D. repens (in 6 animali) e D. immitis (in 2 animali).
Il ritrovamento dei parassiti adulti di D. immitis, senza o con sporadica microfiliariemia, similmente ai gatti, suggeriva che il ruolo delle volpi come serbatoio della FCP fosse trascurabile.
Le pulci, ospiti intermedi della D. dracunculoides, potevano consentire la diffusione dell'infestazione dai carnivori selvatici ai domestici. Concludendo la volpe poteva essere considerata il serbatoio della filariosi del cane causata da D. dracunculoides (Marconcini et al., 1996).

 




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